(di Massimo De Simoni)
Quarantadue anni fa in una mattina che sembrava iniziata come tante altre, in una strada di Roma, iniziava la più intrigata tragedia della storia repubblicana italiana. Iniziava con la brutale uccisione di cinque servitori dello Stato, due carabinieri (Oreste Leonardi e Domenico Ricci) e tre agenti di Polizia (Francesco Zizzi, Giulio Rivera e Raffaele Iozzino) che meritano di essere ricordati con i loro nomi e cognomi e non solo con un numero riassuntivo come è spesso accaduto.
Nello stesso momento inizia il calvario di Aldo Moro destinato a durare per quei cinquantacinque giorni che sono stati lunghi per alcuni versi e fin troppo brevi per altri, se si pensa che la fine di quel periodo ha coinciso con l’uccisione del Presidente della Democrazia Cristiana.
L’assassinio di Moro è una ferita aperta per il nostro Paese, anche perché ancora oggi ci sono molti aspetti non chiari di quella vicenda proprio a partire dall’agguato di Via Fani; ma questo ovviamente appartiene alla cronaca e presuppone la conoscenza di dati ed informazioni che non sono accessibili a tutti e non è quindi questa la sede per fare alcune domande, che pure vorremmo tanto fare.
In questi anni la vicenda giudiziaria del rapimento e dell’uccisione ha avvolte fatto scivolare in secondo piano le valutazioni sul Moro politico. E questo è un peccato perché stiamo parlando di un vero statista che aveva la capacità di vedere oltre l’attualità e la contingenza del momento, di leggere la realtà senza negarne la complessità ma trasformando la stessa complessità in un’opportunità per la crescita democratica del Paese.
Moro ha ancora molto da insegnare ad una politica che tende a dividersi esaltando le diversità con spaccature, scissioni e personalismi. Nel rileggere alcuni suoi interventi si percepisce la concezione della politica come attività di costruzione di una comunità democratica e matura che si prepara al futuro senza averne paura.
Avremmo tanto bisogno di Moro ancora oggi, o forse soprattutto oggi.